26 April 2024

Il genocidio armeno.  I migliori testi degli studenti

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"La lezione più importante che la storia ci insegna è che l'uomo non impara molto dalle lezioni di storia." Un'amara affermazione, specie se si considera che a scriverla è stato Aldous Huxley, un famoso scrittore di...fantascienza. Ma di fantascientifico sembra esserci ben poco o nulla.Alcuni capitoli sono andati persi, altri dimenticati, altri ancora troppo crudeli per essere letti.Tranne il fatto che la stessa storia assomiglia a un romanzo surreale in cui l'uomo è il protagonista e la trama va avanti da migliaia di anni.Il genocidio armeno è uno di questi. È il 1915. In tutta Europa imperversa la Grande Guerra e nessuno sa quanto durerà, ma soprattutto se riuscirà a vivere abbastanza da vedere con i propri occhi la sua fine. Nel frattempo, nel cuore dell'Impero Ottomano, è appena iniziata una guerra silenziosa ancora più cruenta della Grande Guerra, contro un popolo giudicato inferiore, diverso. Un impero potente ma che si stava sgretolando, un gigante d’l’argilla colpito per troppo tempo dai raggi del sole. Un'unica colpa agli occhi dei turchi: gli armeni alleati del "grande. nemico", la Russia. Un'unica soluzione: lo sterminio. Milioni di vite spezzate, migliaia di donne in marcia verso il deserto turco a morire per la fame e per la sete, sorti orribili ma inutili, o almeno fino a quando i turchi smetteranno di negare la realtà dei fatti. "I turchi hanno sterminato tutti gli armeni e tutti sono stati zitti." disse Hitler per giustificare il genocidio ebreo.  E ancora oggi il finale di questa storia non è stato scritto, di sicuro però questa volta non sarà un'arma o una bomba a fare la differenza ma…una penna.

 Davide Pirillo

III F, scuola media I.C.Vittorio Alfieri

Professoressa Giusy Lauro, anno scolastico 2013/ 2014

 

«Era estate. Lo era non per il sole, il prato o per la natura con il suo equilibrio tra flora e fauna… Era estate perché eravamo insieme. Vedevo correre i bambini, li rimproveravo quando cadevano e sporcandosi ridevano… Mi ricordavano me a quell’età. Sentivo un equilibrio intorno a me, come se l’universo fosse una madre premurosa che ci riservava il meglio. Tutte queste mie elucubrazioni furono poi interrotte: “Monique, Monique, prendi il vino e vieni a tavola!”, mi urlò mia madre. Sobbalzai, io che fino a un secondo prima stavo affogando nei miei pensieri: “Arrivo mamma, arrivo”. Così ci sedemmo a tavola e ridemmo, scordandoci del cibo che nel frattempo si raffreddava nel piatto, proprio come poco tempo dopo ci saremmo raffreddati noi. Un caldo afoso ci soffocava, e faceva maturare perle di sudore che, scendendoci sul viso, ci rigavano le guance. Io amavo vedere scendere il sudore sul suo collo, amavo immaginarmi ad asciugarlo con un fazzoletto, amavo la sua voce leggermente roca, amavo il mio riflesso nei suoi occhi blu. Amavo far scorrere le dita fra i suoi capelli biondi.. Amavo lui, e lui amava me. Un turco e un’armena, bella pazzia, vero? Così passai la mia estate a scappare con lui nei prati, a spendere notti insonni. In men che non si dica arrivò Settembre e portò l’autunno. Le foglie rosse cadevano dagli alberi, le strade erano un tappeto vermiglio, ricoperte dalle foglie secche prive di linfa. Esattamente come noi. Il rosso era ovunque, e proprio mentre leggevo delle poesie di Catullo sentii le grida. “Monique, Monique, esci fuori in giardino, presto!” Un pianto disperato ruppe il silenzio della stanza… Era mia madre. Corsi frettolosamente fuori e trovai tutte le donne di casa nostra piegate sui corpi senza vita dei nostri uomini. Alcuni giacevano in pozze di sangue vivo, che fino a poco prima scorreva spedito nelle loro vene. Altri erano mutilati, altri ancora decapitati, e avrei tanto desiderato che i miei occhi non vedessero nulla di tutto ciò. Papà l’aveva detto di stare attenti, lo sapeva. Erano i turchi, erano loro i responsabili di tale inferno dantesco, che come l’autunno prosciuga la linfa alle foglie, ci prosciugò la vitalità. L’unico maschio salvo fu mio cugino, che io travestii da bambina in modo tale da portarlo con me al campo. Noi donne venimmo deportate, trattate come le bestie più indegne, e da quel momento la mia vita cambiò. Lasciammo la Masseria delle Allodole e partimmo verso un futuro irrisorio, stoico e ostile. Sentii più volte, durante il percorso, urla di dolore. Era un dio diverso a condannarci,

o meglio, i suoi discepoli a farlo. Agli uomini la diversità non è mai andata a genio, per il genere umano è solo una minaccia, un elemento da rendere innocuo. “Monique, promettimi che il buon Dio verrà a salvarci, promettimi che finirà questo calvario e che ci riabbracceremo a casa”, mugolò mia cugina. “Ma come posso promettertelo, se è proprio il nostro buon Dio il motivo della disgrazia? Non ci salveremo, ci lasceranno morire come foglie in autunno. Ecco, la vedi anche tu la foglia che hai pestato?” le chiesi. Mi rispose con rassegnazione: “La vedo, è in frammenti, è spezzata sulla strada, senza vita.” “Allora lo sai anche tu. Ora cammina”, la rimproverai io. Ci frustarono, ci lasciarono cicatrici incandescenti, abusarono di molte di noi, soddisfando così i loro bisogni. Costrinsero una donna di noi ad uccidere il proprio pargoletto appena nato. Una vita stroncata dalla forza bruta e dalla violenza spietata, una madre costretta a soffocare il proprio figlio con la sua schiena contro quella di un’altra donna. Pianse disperatamente. “Ma non puoi costringermi, eravamo amici, giocavamo insieme nelle nostre case, ridevamo!” E la sua voce finì, sprecata in un urlo silenzioso, inascoltato dal generale turco. Buffo come i rapporti possano essere bipolari, come possano passare da un estremo all’altro. La violenza è una donna che ammalia le menti degli uomini, offuscando tutti gli altri pensieri. Era inverno. Arrivammo al campo vestite di stracci, affamate, assetate e sfinite. Nulla di tutto ciò, però, era paragonabile alla nostra condizione emotiva. Avevo visto morire tra le mie braccia mia nonna, avevo visto la vita sfuggirle via senza poter fare nulla. Smisi di pregare quando mio cugino, ancora travestito da bambina, venne preso a calci nel ventre dall’ufficiale turco. “Sgobba brutta poppante, diventerai una sciacquetta proprio come le altre”, l’aveva schernito. Smisi di sperare, diventai un’arancia meccanica priva di sentimenti o opinioni. Le bambine ci tiravano le gonne, si adagiavano sui nostri seni e ci chiedevano di stringerle. Avevano freddo lì al campo, e l’unico calore era quello delle braci quasi spente del nostro cuore ferito. Avevamo fame, avevamo lo stomaco stretto in una morsa, e se c’è qualcosa di incontrollabile è un popolo affamato. Molte di noi provarono ad oltrepassare il confine, si chiesero se davvero ci fosse qualcosa oltre. Per avere anche solo una crosta di pane insalivata dovevamo svenderci, entrare in quelle tende e donarci agli uomini che non amavano, che non ci appartenevano e che volevano solo possederci. Così, quando le bambine non resistevano più, entrai in quelle tende. “Buona sera ufficiale”, dissi con la voce soffocata dal pianto. Cominciai a sfilarmi il reggiseno, e proprio quando stavo per farlo cadere l’ufficiale turco mi mise una mano sul petto e mi disse con dolcezza: “Rivestiti, non voglio questo da te”. Risposi sconvolta: “Ma volete tutti questo, com’è possibile.” Lui mi disse d’amarmi e di volermi portare via, io rifiutai. Mi diede il pane lo stesso, e ringraziando il cielo corsi portarlo alle bambine, che lo inghiottirono con avidità, scordandosi della mia bocca affamata. Quando guardavo quel turco pensavo al mio amato, partito per il fronte. Pensavo alle poesie che avremmo letto insieme, ai sorrisi negati, alle risate che ci saremmo fatti scordandoci la torta nel forno. Pensavo alle serate sul divano, pensavo alle nostre corse nei campi e al suo sorriso, e mi rendevo conto d’amarlo ancora, più di prima. Decisi di rischiare, decisi di provare. Mi arrotolai le maniche, mi alzai la gonna del vestito e corsi silenziosamente. Passi piccoli, attenti a non schiacciare nulla per non produrre suono, verso la fine o l’inizio. In quei pochi secondi mi passò la vita davanti, poi arrivai al muro e quando stavo per scavalcare, mi sentii una mano sulla spalla. Ansimavo per la corsa; una voce mi disse “Voltati.” Mi voltai, era il generale turco. Mi portarono in mezzo al campo, mi inginocchiarono e mi strapparono il vestito. L’uomo che mi amava, costretto fra le lacrime, mi tagliò i seni. Un altro ufficiale mi sparò in fronte, e così vedi l’ultima immagine, un fiore nel campo. Stava per arrivare la primavera, ma io non la vidi. Questa stagione simboleggia la rinascita, ma io non rinacqui. “Monique, amore, svegliati!”, il pianto disperato di mia madre che mi vide morta tra le sue braccia. Mi avvolsero le tenebre, e così, finì la mia breve vita. Molte altre ragazze finirono come me: la violenza aveva vinto sui nostri fragili corpi, la follia aveva prevalso. Ed eccomi qui, dall’alto del cielo, a raccontare una primavera mai vista».

 

Alisea Perticone

III D,I.C. A. Rosmini scuola media  Anna Frank

Professoressa Rita Piperissa, anno scolastico 2012/2013

 

 

Vita in fuga

Gente che scappa,

gente che muore,

ogni casa è ormai vuota

nessuno vi è più.

Tutte allineate, donne e bambine,

ormai, avvolti dalla cruda morte.

Terra arida,

terra povera,

non più vita,

non più risa.

Sacrificio disperato,

sacrificio di vita.

Cuore spezzato,

una vita in salita.

 

Giorgia Gangemi

III D, I.C. A. Rosmini scuola media Anna Frank

Professoressa Rita Piperissa, anno scolastico 2012/2013

 

«Non avevo mai provato tanto dispiacere in vita mia, il nonno ci lasciò in inverno, quando la gente si copriva per riscaldare la propria pelle, io invece, volevo riscaldare il mio cuore,ormai distrutto dall'addio della persona a me più cara. Non avevo mai provato così tanto dolore è vero, ma poco tempo dopo provai qualcosa di più forte e triste che mi distrusse non solo fuori, ma anche dentro. Ero solo un piccolo armeno, incapace di reagire a tanta crudeltà, vedevo padri, zii, amici di famiglia, mariti e fratelli cadere su quelle deboli dita, di quelle povere donne che affrontavano il tutto con grande fatica. Piangevano, in silenzio, per non perdere la loro dignità, alcune volte si guardavano tra di loro, e in quelli sguardi trovavano la forza di andare avanti.Erano donne fragili, con la vita appesa ad un filo, stringevano i pugni e con quel pallore e quelle mani stanche, si asciugavano le lacrime che rigavano il loro volto e che avevano spento la vita sulle loro guance ormai pallide poiché afflitte da un destino crudele ed atroce.

Erano donne, mogli di uomini e madri di bambini,che gli furono tolti in men che non si dica, poiché un battito d'ali aveva cancellato la loro felicità. Erano donne, quelle stesse donne che rassicuravano il giorno prima i loro mariti e che sorridevano nonostante la paura dirompeva nei loro cuori.Quelle stesse donne, le ritrovai in fila come disillusi,che tenevano per mano le loro bambine che litigavano per un pezzo di pane.Io unico maschio, travestito da donna riuscii a scampare alla morte. Ricordo ancora,quelle freddi notti,trascorse come cani randagi,abbandonati, e mai più ritrovati. Io e le mie sorelle avevamo fame ma Harmen non sempre trovava il pane,qualche volta i soldati, ospitavano le donne nelle loro tende, che uscivano da quelle quasi svestite, con un pezzo di pane in mano,che stringevano come se provassero vergogna. Molte volte, le donne, non parlavano, ma quei sovrumani silenzi,erano più numerosi di quei fucili, che terrorizzavano tutti noi. I gesti di quelle mani rugose,rappresentavano tutto il dolore che provavano, e quegli occhi lucidi,sembravano volessero chiedere aiuto,ma non lo facevano, poichè nessuno le avrebbe ascoltate e aiutate. In fila, giorno dopo giorno, il numero di quelle donne diminuiva,chi veniva uccisa,chi moriva da sola o chi si accasciava a terra, ormai troppo stanca aspettando quella morte,che sembrava meno crudele della loro vita. Si accasciavano a terra, aspettando che Dio le portasse con se, quello stesso Dio,diverso da quello Islamico,ma sempre Dio, eppure i Turchi, ci uccisero solo per questo. Quelle donne, che continuavano a camminare,senza pace,come un grande fuoco che un giorno o l'altro si sarebbe spento. Alcune volte,cantavano, per ritrovare l'armonia nei loro cuori, ma i Turchi non permettevano nemmeno quello. I turchi ci hanno privato di vivere, e anche chi si è salvato,come me, non vive più, perchè dentro di se, è già morto e loro, colpevoli,non ammettono le loro atrocità,hanno dimenticato tutto quel male che hanno fatto a noi, che al contrario loro, non riusciamo e non vogliamo dimenticare».

 

Nicla Maria Pollinzi

  III E ,I.C. A. Rosmini scuola media Anna Frank.

Professoressa Raffaela Gerace, anno scolastico 2013/ 2014

 

 

Hanno nomi diversi

 

Un freddo caldo è portato qui

dal soffiare impetuoso del vento:

non so da dove arrivi, ma tante voci

porta con se, e sfiorandomi con le sue dita leggere il viso

mi riporta in mente eternità effimere, compagne d’oro fugaci.

 

Eppure ti ho amato, o mio  Signore,

ti ho rivolto un rosso pensiero, tutte le ore

della mia breve esistenza.

Prima sentivo le risate, e passavo giornate

in compagnia dei miei affetti,

poi arrivò un’onda rossa a travolgerci

privandoci dei nostri uomini diletti.

 

Siamo sole qui in questo duro campo,

un aguzzino ci tiene in pugno: ha un

volto enigmatico e un sorriso avido.

Io guardo oltre la siepe e penso che

potrei essere la prossima a sparire come

non dovrei, spazzata via da un colpo di fucile

irrisorio nemico di tutti. 

 

Il nostro giogo va avanti da troppo,

il grigiore del tramonto brillante

stoico ci avvolge nelle tenebre.

Fra le andane aleggia una bandiera;

non è la nostra, o mio Signore:

è forse il nome diverso del nostro Dio

rispetto a quello del vostro che ci condanna?

 

Io la luna non vedo più,

l’unico argento che noto è il timido riflesso

del mio bimbo nell’acqua dello stagno.

Giace a terra fra l’erba vermiglia,

privo di vita e di una vera famiglia.

Queste sono le mie ultime parole davanti

all’ardente rogo, mi gettano fra le fiamme e io affogo.

 

 

Alisea Perticone

III D, I.C. A. Rosmini scuola media Anna Frank

Professoressa Rita Piperissa, anno scolastico 2012/2013

 

Dove  è finito il nostro amore?

 

 

«Camminano con passo minaccioso, come infastiditi  dalla mia presenza, uccidono con crudeltà e indifferenza, come un cavallo pesta le formiche durante la corsa.

La nostra storia è come quella dei film, un amore impossibile.

Tu un turco io un'armena.

Sembra strano a parlarne, come se non fossimo esseri umani e forse io non lo sono più.

E' inverno, ma c'è il calore della famiglia, che ti rallegra e ti fa sentire te

stessa.

Poi , tutto  d'un tratto, ecco il freddo della crudeltà e della morte, che porta via le belle giornate.

L'estate è durata troppo poco, anche se è proprio in quel poco che ho imparato

ad amare.

Si, perché è facile amare qualcuno che ti ama, trascorrere le giornate in sua compagnia.

Dove è finito il nostro amore?

E dire che stavamo festeggiando, ridendo, bevendo e ballando insieme. Ed eccoci qui.

Una spada vermiglia  del sangue della mia gente mi si punta contro, è la tua. Mi tolgono i vestiti e mi umiliano davanti al mio popolo, davanti al tuo popolo, davanti a te.

Ho paura, ma non di morire.

Ho paura di vivere, così da vedere le atrocità, le disgrazie e gli orrori subiti dal mio paese che chi sa, poteva essere anche il tuo.

Ora il sangue gocciola, l'aria si fa più fredda, tutto  è in subbuglio, quando...il silenzio, il nulla.

Il mondo tace, il loro mondo.

Il mio no, chiede giustizia.

Una giustizia che non verrà mai».

 

 

Marcello Morace

III F, I. C. A. Rosmini scuola media Anna Frank

Professoressa Teresa Lentini, anno 2013/2014